La rinnovata attenzione al fenomeno passa in questo periodo per quella che sta diventando una querelle nazionale sulla carpa.
Le acque interne, soprattutto quelle dell'area padano veneta, hanno visto negli ultimi anni un crescente fenomeno di pesca e commercio illegale di pesci operato soprattutto da pescatori provenienti dall'Europa orientale. Gli obiettivi principali del bracconaggio sono i pesci di taglia maggiore il che coinvolge oltre al siluro anche la carpa. Una circostanza che ha portato, tra l'altro, al rinascere di una discussione sulla alloctonia della carpa oltre a provocare un crescente allarme tra i pescatori e, in misura minore, tra gli amministratori.
Ci volevano gli stranieri per sollevare un problema che già era conclamato e quasi sempre tollerato, soprattutto in mare. Così il problema del bracconaggio sembra concentrarsi sulla bassa padana e sulla carpa nonostante le sue dimensioni siano molto maggiori e riguardino in forma diversa tutte le risorse in modo direttamente proporzionale al loro valore commerciale.
In alcuni contesti una base di illegalità sembra congenita e non eradicabile, tollerabile non solo come ammortizzatore sociale ma per il mantenimento del consenso in qualsiasi forma di rappresentatività, da quella politica a quella associativa o corporativa. Un bracconaggio tradizionale che non solleva scandalo perché radicato, locale e tradizionale, una specie di diritto naturale di sfruttamento dell'orto di casa.
L'approccio alle politiche di controllo a livello nazionale e locale è evidentemente inadeguato ma, a causa se non altro proprio della mancanza di organizzazione piuttosto che di risorse, facilmente migliorabile rispetto alla condizione attuale.
Che sia davvero la carpa connection balcanica a sollevare il coperchio della pesca illegale in Italia?
Che siano i ciprinidi a far riflettere sulla destinazione delle prede dei palangari a 200 ami?
Che si parta dagli appostamenti notturni sui canali per vedere le spigole bucate da una fiocina nei ristoranti buoni?
Saranno forse gli ittiologi delle acque dolci a suggerire come affrontare il problema o saranno i pescatori commerciali a contribuire visto che quando si parla di cose serie occorre professionalità?
Ci proveranno certo di più i politici locali che vedono crescere l'allarme sociale e le giornalate, meno quelli di Roma che si fanno tirare per il bavero e tirano dritto perché non hanno tempo per queste cose.
Quando si deciderà un Ministero ad occuparsi del problema con la finalità di risolverlo piuttosto che di non scontentare troppa gente abituata a pescare senza regole ed incoraggiata a farlo dalla sicurezza dell'impunità e dalla percezione di una infrazione lieve, veniale e quasi bonaria?